Chiara Gatti
Presentazione alla
mostra personale "Terra addosso" Milano 22 Aprile / 20 Maggio 2010 La storia dell’arte brulica di opere in cui l’iconografia del corpo nudo è soggetta a riflessioni sulla perdita di identità, sul senso del dolore frutto di sensazioni fisiche a volte crudeli, sulla violabilità del corpo stesso o sulla necessità di spogliarsi di un’apparenza per vestirne un’altra. E non si parla, qui, solo di arte contemporanea, di tendenze, declinazioni e tecniche legate alla body art o a esperienze simili, nel caso stiate pensando a queste. Ma della storia dell’arte di tutti i secoli, dentro la quale, a guardarci bene, si può ritrovare una sorta di linea ideale che lega fra loro maestri di epoche diverse ugualmente sedotti dal tema del corpo e dalla contrapposizione fra spirito e materia… con un occhio privilegiato per la materia e un’attenzione speciale per la sua caducità. All’interno di questo quadro si posiziona la ricerca di Giovanni Lo Presti che, reduce da un’adesione giovanile, a modi del realismo esistenziale milanese, segnati dall’interesse per l’oggetto, per lo spazio congelato nell’attesa e un silenzio abissale tutto intorno, è approdato in tempi recenti a una nuova riflessione dove la figura è entrata prepotentemente nel suo immaginario, lasciando tracce inquiete del proprio passaggio, infrangendo la quotidianità sospesa dei suoi interni di sempre con una presenza ansiogena, gravosa, a tratti insostenibile. Presenza tuttavia inafferrabile, vista la maschera che porta addosso. Già perché Lo Presti, che all’iconografia delle maschere non è nuovo – autore di grandi dipinti dove essa galleggia in composizioni surreali, memori forse della tragedia greca con i suoi coreuti dal viso nascosto dentro splendidi manufatti in terracotta – ha piegato il soggetto a una nuova esigenza espressiva. Recuperando, sì, quella dimensione di quotidianità tipica delle opere esistenziali, ma proiettandola in una sfera più profonda, nella quale il subconscio diviene protagonista, affiora dall’intimo e si manifesta come una piaga sulla pelle. Come un nuovo tipo di maschera, purtroppo verosimile, che occulta ma allo stesso tempo rivela. Diceva, non a caso, Paul Valéry che «quello che c’è di più profondo nell’essere umano è la pelle». Perché è lì che prende forma la sua vera sostanza. «Sotto c’è la macchina» specificava, «alla superficie l’uomo è soltanto l’uomo». E l’uomo, o meglio, la donna di Lo Presti, protagonista di drammi monumentali acuiti dalle zoomate impietose dell’obiettivo su ogni dettaglio e torsione del corpo, è tragicamente se stessa, atrocemente nuda anche quando tenta di nascondersi, infangandosi la pelle e cercando nella terra bagnata un travestimento disperato. Un’altra maschera, appunto, per una storia che è sempre la medesima. Lo confessa Lo Presti, citando Marcel Proust e la teoria secondo cui ogni scrittore scrive sempre lo stesso libro, per tutta la vita. E lui lo ha fatto, tormentato dalla logica della sottrazione. Sottrarre un oggetto alla visuale, coprendolo con uno straccio, nelle sue tele giovanili, con i televisori avvolti sotto lenzuoli algidi, ma di cui si intuiva perfettamente la sagoma. Sottrarre un personaggio alla sua storia, appendendo nello spazio vuoto una maschera senza padrone. E, ancora, sottrarre un corpo alla sua nudità, alla sua pelle (per tornare a Valéry), dissimulandone le forme in una poltiglia umida, limacciosa, appiccicata addosso come una maledizione, spalmata per difesa e trasformatasi in una gabbia. La terra fresca è così morbida da sembrare crema sulla cute. Ma appena si rapprende diventa una catena che imbriglia tutto. Moti e sentimenti. «Nel fango involta / strugge» rimava il Torelli pensando al peso della carne e avendo probabilmente negli occhi i celebri affreschi della Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese, dove la bruta materialità dell’amore di Polifemo per Galatea si manifesta proprio nei suoi piedi nudi affondati nella terra mentre lei, leggera, emerge dalle acque. Anche la Venere «vulgare e terrena» della scena carraccesca di Sileno giace a terra seminuda, lasciva e voluttuosa. L’idea della terra-madre, nobile, fertile e benigna, dal ventre gonfio come la donna misteriosa della Tempesta di Giorgione, lascia di fatto il posto qui a una corrispondenza di sensi fra corpo e terra che ha il retrogusto amaro dell’impurità. Nella linea ideale che attraverso i secoli ha visto gli autori ragionare su questo tema, si potrebbero citare anche le innumerevoli versioni di una iconografia classica come quella di Susanna e i vecchioni, episodio biblico del Libro di Daniele, che da Artemisia a Rembrandt, vanta rappresentazioni torbide in cui, fra lussuria e proposte indecenti, la scena si consuma in un antro dalla vegetazione spettrale, le acque melmose e la terra stagnante. Lasciti ideali che Lo Presti sembra aver macinato, fondendoli con altri portati, come quello della distorsione, della smorfia, atto apotropaico antico, utile a respingere le forze del male. O proprio come quello della maschera, sistema difensivo indossato per rifuggire il dolore ma che, alla fine, ti si ritorce contro. Tant’è che l’artista depone volutamente l’icona immacolata e inattaccabile del nudo femminile – che da Susanna alle odalische al bagno di Ingres resta l’unica nota casta e algida in scene segretamente impudiche – per trascinare nel fango anche lei. Il senso rivoluzionario di questo suo attacco alla morale costituita, lo si potrebbe ricollegare, ora, alle azioni più recenti di molta body art (da Günter Brus a Eliseo Mattiacci con le sue maschere di fango) concentrata giustappunto sui temi della incomunicabilità, della finzione, della costrizione e del soffocamento, traghettati da immagini volutamente forti e urtanti. Nel suo caso, però, è la pittura-pittura a farsene interprete, affidando il linguaggio del corpo a una figurazione iperrealista, tecnicamente perfetta, d’una lucidità nordica e di una fredda precisione, nonostante le sue origini mediterranee e la scuola di un padre maestro di carretti siciliani, che gli ha insegnato lo spirito della bottega e consegnato i segreti di un mestiere antichissimo, basato su tele preparate con pazienza e chirurgica alchimia nel macinare i pigmenti e stenderli a suon di velature. L’equilibrio formale e l’uso mirato della luce hanno fatto il resto. Ultimamente, poi, sono entrate in gioco anche piccole sperimentazioni. Come l’innesto di foglie d’oro per scaldare la scena, soprattutto nelle immagini dove il contrasto chiaroscurale e la presenza di ampie zone nere richiede bagliori improvvisi, capaci di illuminare con un fascio radente i panneggi di tessuti vellutati su cui la donna sembra precipitata dall’alto, bagnata da una pioggia sporca. Talora lo sfondo dorato è sostituito invece da ampie aree monocrome: l’intervento dell’acrilico, piatto e uniforme, fa da controcanto all’olio fiammingo, e contribuisce a spostare la scena dall’ambientazione reale, riconoscibile nei suoi dati essenziali, d’una stanza o di un bagno, in un orizzonte astratto, in cui tagli obliqui, fette di colore (sempre acrilico, miscelato alla pasta di pomice per un effetto vibrante) creano quinte spaccate, scenari mentali, intervalli di spazio bidimensionale che dirottano la rappresentazione dal campo del racconto e del contingente a una sfera più concettuale. È qui che Lo Presti mette d’accordo ricerca formale e contenuti. Confessa il debito nei confronti della pellicola di Bertolucci, The Dreamers, e dell’inquadratura formalmente impeccabile che incorniciava dall’alto il triangolo amoroso consumato nella vasca da bagno. Un momento di quotidianità divenuto pretesto per lo studio di una forma esatta. Da questa suggestione, l’artista mutua il soggetto della vasca come iniziale contesto scenico, circoscritto, per le sue veneri nere. Prima immerse nell’acqua, come sirene, fluttuanti nella schiuma. Poi, d’un tratto, gettate in un incubo greve. Fatto di terra fradicia, incollata addosso: alle mani, alle braccia, alle gambe, incrostata fra i capelli e sui seni. Indelebile. «Scompari, macchia maledetta! Scompari, dico!» tuonava Lady Macbeth tentando di lavarsi dalle mani il sangue immaginario delle sue vittime. Ma la colpa non si lava. Sul corpo affiora dal profondo. La pelle è il fondo. E il grido, che la Susanna di Lo Presti indossa come una maschera, è l’unico gesto di liberazione possibile. Mentre la terra le si rapprende addosso, tenta la fuga. Come dalle mani lussuriose dei vecchi. Come dal male che la ghermisce. Come dal dolore che l’avvolge con sinistra poesia.
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